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Il corpo probabile nell'arte cinese.

Di Chiara Celoria


Ma Liuming, The Anouymous Mountain Raised by a Meter, 1995, gelatin silver print, 119.5 x 177 cm

Il 10 aprile 1929 fu inaugurata la Prima Mostra Nazionale d’Arte al National Art Museum of China, un evento espositivo senza precedenti sorto dall’iniziativa di un gruppo di artisti affermati che intendeva presentare al grande pubblico i frutti della moderna ricerca artistica attraverso un’antologia di oltre duemila lavori. Una parte consistente delle opere esposte era realizzata utilizzando materiali e tecniche pittoriche inusuali per gli osservatori cinesi del tempo, come l’olio su tela, l'accostamento di colori forti, la pennellata impressionista materica e svelta. Molti degli autori in mostra avevano appreso tali tecniche nel corso della loro formazione accademica, durante periodi di studio in Giappone e in Europa, incoraggiati dalle stesse università. A colpire l’attenzione al pari di queste fusioni stilistiche all’occidentale fu la presenza inaspettata di una grande quantità di dipinti di nudo- soprattutto femminili- seduti, reclinati, alla toeletta[1]. Il ritratto di donna a figura intera con fattezze naturalistiche e colto in circostanze in cui l'assenza di abbigliamento non era giustificata da espedienti narrativi o intenti erotici era un soggetto assolutamente nuovo e difficile da accogliere. Qualche anno prima dell’apertura della mostra era infatti insorta una polemica sull'indecenza di introdurre nei programmi scolastici il disegno di nudo.


Al volgere del diciannovesimo secolo, la rivoluzione che aveva posto fine al dominio della dinastia Qing era animata dall’ambizione di rinnovare la nazione non solo dal punto di vista politico, ma anche culturale. Numerosi intellettuali avevano sostenuto la necessità di abbandonare i principi confuciani arretrati per abbracciare le novità provenienti dall’estero e sintetizzarle nel contesto cinese. In ambito artistico si era formata una corrente che si proponeva di rivitalizzare l’istruzione considerata stagnante e conservatrice mediante alcuni metodi importati dall’Europa, tra cui il disegno della figura dal vero[2]. Quando Liu Haisu (1896-1994), celebre pittore e fondatore dell’Accademia di Shanghai, avviò il primo corso con l’ausilio di modelli nudi nel 1914, questo fu immediatamente censurato e segnalato dalle autorità cittadine; ancor più feroce fu la controversia che lo investì sui giornali dopo aver assunto la prima modella a contratto nel 1920.


Nella tradizione figurativa occidentale la nozione di "corpo" sembra inseparabile da quella di nudità, condizione originaria in cui la presenza umana è percepita nel mondo. In Cina, tuttavia, ci sono pochi esempi di trattazione del nudo e sembra assente una consuetudine paragonabile a quella occidentale. Questo significa che il nudo - e dunque il corpo secondo l’equivalenza prima indicata – sia un tabù, un elemento scomodo e quindi rimosso nell’arte cinese?

La letteratura fornisce succose descrizioni della fisicità - si pensi al Jin Ping Mei - che lasciano supporre una precisa consapevolezza del corpo, specialmente delle donne, e un atteggiamento non così pudico nei confronti della sessualità.

In ambito strettamente artistico- e anche nell’illustrazione letteraria- non esistono trasposizioni altrettanto succose. Due studiosi hanno provato a indagarne le motivazioni. Il contributo più recente è un libro del 2007 scritto in francese dal sinologo e filosofo ellenista François Jullien, tradotto in inglese con il titolo The Impossible Nude: Chinese Art and Western Aesthetics. Partendo dalla posizione di vantaggio dell’Occidente nel rispetto della concezione del nudo come entità ontologica, François Jullien ne analizza la storia visiva e le condizioni che l’hanno resa possibile dimostrando che in Cina, di converso, non vi sono state e che tra le due filosofie vi è un’incompatibilità incolmabile[3].

La “forma” presso gli antichi greci (edios) è un concetto permanente, stabile e finito. Il sentimento di individualità personale e il “senso per le forme libere e belle” come lo definiva Hegel[4] hanno condotto i Greci a ricercare, attraverso l’anatomia del corpo umano, la forma “più libera e più bella”, ossia la rappresentazione realistica ed atletica del nudo (maschile). Se l’abbigliamento fa risaltare il “lato spirituale della forma, nei suoi contorni veramente viventi” e dunque l’individualità del rappresentato, il nudo è incarnazione di un’essenza umana[5].

La “forma” nel pensiero cinese (xing 形) è invece transitoria, fluida e in divenire. I pittori cinesi non sono interessati alla mimesi o alla rappresentazione della realtà; della figura umana non ricercano l’elemento corporale, ma lo spirito che la anima e che risuona diffondendosi nell’atmosfera (shen 神)[6]. Per questo motivo Jullien rileva che la pittura del soggetto umano non possiede come altrove uno statuto di genere, ma è dispersa sotto più voci e non ha più valore, ad esempio, del paesaggio. Con il paesaggio l’uomo costituisce un insieme integrato, essendo entrambi concrezioni di energia, e vi condivide una disposizione d’animo. Non esistendo in Cina una dicotomia mente/anima e corpo, ogni elemento è attraversato dalla medesima energia e quindi anche oggetti inanimati possono a tutti gli effetti avere proprietà antropomorfe ed essere letti come corpi espressivi e comunicativi[7].


Il nudo, estraendo l’uomo “dalla differenza di epoche e di condizioni”, comporta che si risponda alla domanda “che cos’è l’uomo nella sua generalità?”. E poiché non si è mai posto il problema di dover astrarre l’uomo dal cosmo, anzi i fenomeni interni ed esterni che caratterizzano il suo corpo sono un’analogia di trasformazioni più grandi, la Cina ha sviluppato secondo Jullien una saggezza, ma non una filosofia.


Un lettore vicino agli studi postcoloniali probabilmente non apprezzerà una simile affermazione e rileggerà l’introduzione di questo articolo soffermandosi sul fatto che lo sviluppo del nudo in Cina avvenne nel solco di un rapporto reciproco di scambio fra nazioni lontane nei primi decenni del Novecento. Nello stesso periodo, inoltre, sorse l’ossessione nel rintracciare le ragioni di un’assenza giudicata tanto significativa. La questione del nudo non è mai stata rilevante né in Cina né in Giappone, almeno fino a quando non fu sollevata dagli osservatori occidentali. Che queste indagini siano state in voga tra gli studiosi occidentali tra gli anni Novanta e Duemila e siano state inserite nell’indice di molte conferenze significa forse che la natura problematica dell’argomento è stata creata proprio in Europa. Con questa riflessione si apre un celebre saggio del 1993 di John Hay, intitolato “The Body Invisible in Chinese Art?” e pubblicato nella raccolta Body, Subject and Power in China a cura di Angela Zito e Tani E. Barlow.


Diversamente da Jullien, che intitola il suo scritto con l'affermazione perentoria dell'impossibilità del nudo in Cina, lo storico dell’arte si pone in una prospettiva di interrogativo. La risposta da lui formulata alla domanda "il corpo è invisibile nell'arte cinese?" potrebbe presupporre tanto una negazione quanto un’affermazione. Anche la scelta terminologica è meno marcata: l’invisibilità fa supporre comunque un'esistenza, per quanto negata o celata. La sua tesi non si imposta tanto sull'assenza del topos, ma piuttosto sull'incapacità dell'Occidente di riconoscere i corpi quando sono rappresentati utilizzando indicatori artistici non occidentali. Rompendo con le nostre aspettative di un corpo conforme alle forme anatomiche e alle superfici prescritte dalla cultura occidentale si scoprirà rapidamente che il corpo ha una lunga tradizione nell'arte cinese, ma non è l’agglomerato di carne geometricamente determinato che siamo soliti intendere noi[8].


Anche lui riprende il tema dell’abbigliamento legato alla comprensione più profonda dell’essere cinesi. Per Hay la cinesità è un fatto fondamentalmente culturale piuttosto che etnico[9]. Essere cinesi significava essere civilizzati, ed essere civilizzati significava mettere in pratica correttamente il li, ossia il rito. Angela Zito descrive l'egemonia del li come un insieme di disposizioni che regolavano ogni aspetto della vita, dal modo in cui venerare gli antenati agli ornamenti da indossare[10]. Da questo quadro ontologico si spiegherebbe la preponderante presenza di figure abbigliate nelle opere figurative, soprattutto quelle con specifica funzione sociale: poiché indumenti e accessori servivano a definire lo status nel sistema gerarchico, il corpo ritualmente non marcato da attributi non offriva codici per indicare la propria posizione nel mondo sociale e in questo senso era privo di significato e non rappresentato. Tuttavia, per Hay, questo argomento non è sufficiente a motivare la scarsità di nudi; lo studioso ne fa una questione connessa alla definizione daoista di corpo come qi e alla tecnica calligrafica[11]. La preoccupazione dominante nella pittura, chiaramente rivelata nella sua relazione spesso riaffermata con la calligrafia con cui condivide gli strumenti (inchiostro e pennello), era la linearità. Secondo lui le pieghe dei panneggi degli abiti costituiscono il corrispondente più efficace dell’arteria pulsante cara alla fisiologia cinese, molto più di una pittura piena. L’attenzione alla linearità come metafora della vita e segno per descrivere l’energia per Hay è evidente in molte opere, dalle illustrazioni a stampa xilografica del Jin Ping Mei alla Ninfa del Fiume Luo di Gu Kaizhi[12]. In queste osservazioni si racchiude non solo una possibile giustificazione del poco interesse per il nudo, ma anche una difesa della calligrafia in quanto linguaggio critico e concettuale più corporeo della pittura stessa.






[1] Julia ANDREWS, SHEN Kuiyi, The Art of Modern China, Los Angeles: University of California Press, 2012, p. 64. [2] PENG Lü, A History of Art in 20th Century China, traduzione di Bruce Gordon Doar, Milano: Charta, 2010, pp. 281-282. [3] WANG Shipu, “Review: ‘The Impossible Nude: Chinese Art and Western Aesthetics’ by François Jullien”, in China Review International, vol. 15, n. 2, Honolulu: University of Hawai’I Press, 2008, pp. 236-237. [4] François JULLIEN, Le Nu Impossible, Parigi : Editions du Seuil, 2000, pp. 86-88. [5] Ibid., p. 88. [6] WANG Shipu, “Review: ‘The Impossible Nude’”, pag. 235. [7] Nachoem M. WIJNBERG, “Human bodies in Chinese and European Painting: An Economic Analysis”, in Cultural Dynamics, vol. 11, n. 1, London; Thousand Oaks; New Delhi: Sage Publications, 1999, p. 91; Martin J POWERS, “When is a landscape like a body?”, in Wen-hsin YEH (a cura di), Landscape, Culture and Power, pp. 1-22, Berkeley: Centre for Chinese Studies, 1998, p. 7. [8] Gabrielle STEIGER LEVINE, Deviance and Disorder: The Naked Body in Chinese Art, Montreal: McGill University Press, 2008, p. 43. [9] John HAY, “The Body Invisible in Chinese Art?” in Angela ZITO, Tani E. BARLOW (a cura di), Body, Subject and Power in China, pp. 42-75, Chicago: University of Chicago Press, 1994, p. 51. [10] Angela ZITO, Of Body and Brush: Grand Sacrifice as Text/Performance in Eighteenth-Century China, Chicago; Londra: The University of Chicago Press, 1997, p. 14. [11] John HAY, “The Body Invisible in Chinese Art?”, p. 62. [12] Ibid., p. 63.



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