Di Chiara Celoria
A SINISTRA: Shan Lianxiao, I want to live like her (Carry on the Revolution to the End), 1968, poster.
A DESTRA: Qi Zhilong, Chinese Woman, 1998, olio su tela, 200.3 × 163.5 cm, M+ Sigg Collection, Hong Kong. Donazione, © Qi Zhilong.
Queste immagini apparentemente molto simili, ma cronologicamente distanti l’una dall’altra e create in contesti e con finalità differenti, per mezzo di piccoli dettagli ci presentano due tipi di donne in antitesi, frutto di epoche in cui alla femminilità veniva attribuita un’importanza diversa, e diverso era il modo di esperirla.
È chiaro che, in quanto immagini, non possano incarnare l’essenza di tutte le donne cinesi del tempo in cui sono state prodotte, né tutte le sfumature in cui il genere poteva essere performato; esse sono rappresentazioni, filtrate dall’intenzionalità degli artisti che le hanno confezionate e dallo sguardo maschile che inevitabilmente ha agito le proprie aspettative sul femminile. Tuttavia, i soggetti sono umani, reali e tangibili; ripropongono aspetti della contingenza storica a cui fanno riferimento, dunque non possono essere liquidate come mere visioni. [1]
A sinistra si osserva un manifesto concepito da Shan Lianxiao nel 1968, poco dopo il lancio della Rivoluzione Culturale da parte di Mao Zedong e la mobilitazione studentesca culminata nella nascita dei gruppi rivoluzionari autogestiti delle Guardie Rosse.[2] Sullo sfondo di un cielo azzurro si staglia una ragazza in posa eroica, vestita in uniforme militare con la cosiddetta zhongshan zhuan (o giacca maoista). Al braccio porta un fucile e regge una copia della raccolta di aforismi del presidente Mao - nota come Libretto Rosso e divenuta lettura imprescindibile per la formazione politica dei giovani cinesi negli anni Sessanta. Ha lo sguardo fiero e coraggioso rivolto verso l’avvenire e il pensiero orientato al passato, incarnato dalla figura abbigliata di rosso che fluttua sopra di lei: quest’ultima rappresenta un membro delle Lanterne Rosse, come suggerisce la lanterna che tiene in mano, una milizia femminile formatasi spontaneamente durante la Rivolta dei Boxer del 1900. Non è insolito, nella propaganda della Rivoluzione Culturale, ritrovare analogie tra le due tipologie di combattenti, entrambe insorte contro i vincoli della tradizione morale confuciana e le pratiche feudali, entrambe equiparate dal possedere abilità fisiche e determinazione simili ai compagni uomini.[3] La didascalia del poster invita l’osservatore (o meglio, l’osservatrice) a imitare una disciplina rigorosa che non indulge a elucubrazioni sul genere e sulla differenza, anzi ambisce ad acquisire caratteristiche maschili. In questa prospettiva sono significativi gli attributi iconografici: l’abbigliamento unisex, la rinuncia agli elementi decorativi che possano essere ricondotti a derive borghesi – l’unico fiocco presente adorna il libro, e non il capo della ragazza. L’immagine contiene in nuce gli elementi della svolta di radicalizzazione politica in cui il genere, sempre subordinato alla lotta di classe nella Cina socialista, durante la Rivoluzione Culturale è negletto al punto da divenire un fardello. La tendenza alla neutralizzazione (o omologazione al maschile) si evince anche in altri prodotti culturali, come nelle eroine delle opere teatrali modello canonizzate da Jiang Qing e nelle campagne per promuovere l’impiego femminile nella forza lavoro, che sfruttavano l’icona delle Donne di Ferro.[4]
Il dipinto a destra ripropone il medesimo soggetto, ma viene realizzato alla fine degli anni Novanta da Qi Zhilong, un artista che, pur mantenendo uno stile di pittura realista, opera al di fuori del sistema istituzionale, in quella che può definirsi “avanguardia”. Notato dall’influente critico Li Xianting nel 1992 mentre lavora nella comunità artistica Yuan Ming Yuan, Qi Zhilong è annoverato tra i capostipiti delle correnti Political Pop e arte Gaudy. Entrambe sono, più che movimenti strutturati, etichette attribuite alle opere di diversi autori in cui si ravvisano alcuni tratti comuni: la fascinazione per il repertorio di immagini popolari dell’epoca maoista (santini, cimeli, talismani, calendari), la parodia dell’ostentazione del lusso del ceto medio emerso dopo l’austerità, la giustapposizione decostruttiva del linguaggio della società dei consumi e dell’ideologia socialista. [5]
Alla luce di queste interpretazioni, possiamo osservare la figura della Guardia Rossa da lui proposta sotto una nuova veste: qui non vi è traccia dello slancio verso il futuro, la ragazza è colta frontalmente, con lo sguardo vagamente sensuale rivolto all’osservatore (o meglio, osservatrice), ed è possibile persino notare accenni di trucco e vezzi che rivelano una nuova attenzione per l’apparire, come gli elastici colorati. In generale lo spirito militaresco è attutito e romanticizzato: il colore rosso, un tempo traboccante di significato, ora è solo un colore. Una parete neutra che fa risaltare la figura nella sua bellezza, quasi a indicare la transizione dall’epoca dell’idealismo a quella del materialismo.[6] Inoltre l’artista gioca con il concetto di anonimato, scegliendo come modelle delle celebrità, e con le gerarchie, utilizzando nei ritratti una scala solitamente concessa agli eroi o allo stesso presidente Mao.
Com’è avvenuto il passaggio da una rappresentazione all’altra? Da un simbolo a una sorta di messa in scena del simbolo? Non si tratta solo di sottoporre a giudizio un intero periodo storico, con la sua estetica pervasiva, ma di riposizionare totalmente il ruolo della donna nella società.
La distanza temporale ha concorso alla rielaborazione degli eventi, ma ancor più determinante è stato il graduale e deliberato ritorno all’essenzialismo biologico spinto dall’apertura al capitalismo.
Emblematico di ciò è il processo alle Donne di Ferro, soprannome dato a una squadra di ventitré adolescenti formatasi a Dazhai per la ricostruzione del villaggio dopo un’alluvione nel 1964. Intorno alle loro gesta fuori del comune si è sviluppata una narrazione che ha ispirato la nascita di numerosi altri gruppi e l’istituzione di premi e riconoscimenti.[7] Note come donne forti, robuste e in grado di svolgere compiti più comunemente assegnati agli uomini - saldare, trasportare materiali pesanti, riparare i cavi elettrici - concretizzavano lo slogan maoista che “qualunque cosa potessero realizzare i compagni maschi, anche le donne ne erano capaci”. Celebrate durante la Rivoluzione Culturale come emblema dell’uguaglianza di genere, negli anni Ottanta sono diventate oggetto di spietate prese in giro. Parallelamente alle riforme liberiste, si è assistito a una correzione di questo fenomeno, giudicato emblematico di un’idea di parità inadeguata e dannosa per lo sviluppo economico, che ignorava le capacità innate e fisiologicamente determinate delle donne, sottoponendole a carichi di lavoro eccessivi.[8] Margaret Woo si riferisce a questa inversione di rotta con il termine “biologizzazione”. [9]
La reazione violenta provenne principalmente dagli uomini: in molti membri dell’élite culturale le Donne di Ferro scatenavano repulsione fisica e paura. La studiosa Xueping Zhong, nel suo saggio sulla rappresentazione della mascolinità nella letteratura degli anni Ottanta, analizza il mito dello yinsheng yangshuai, una nota costruzione discorsiva per cui “le donne sono troppo forti e gli uomini troppo deboli” e lo identifica come il frutto di un complesso di marginalizzazione dell’uomo e del suo libero arbitrio durante il governo di ultra-sinistra. Metafore ricorrenti per riferirsi alla mancanza di libertà non a caso sono la castrazione e l’impotenza, che riflettono anche un ritorno alla retorica nazionalista volta a far guadagnare alla Cina un posto di potere nel mondo. [10]
Potrebbe stupire che anche alcune donne colte, pur non negando i progressi del femminismo socialista – che a loro avviso erano più significativi che altrove – ne criticarono i criteri di uguaglianza che appiattisce e non lascia spazio all’auto-rappresentazione, facendo riferimento alle tesi delle femministe statunitensi. Quest’ultime, nel tentativo di uscire dalla centralità imposta del sapere eurocentrico, dalla fine degli anni Ottanta dedicarono ampio spazio alle voci native del cosiddetto Terzo Mondo. Tuttavia, nonostante le intenzioni positive, la loro agenda imbevuta di studi sul post-colonialismo spesso ignorava lo specifico contesto culturale e le relazioni di potere della Cina, contribuendo a diffondere idee stereotipate sulla mascolinizzazione come strategia coatta dello Stato. [11]
In realtà, le contadine erano pressoché inconsapevoli di essere definite come “mascolinizzate” dagli accademici anglofoni e dagli intellettuali cinesi uomini. Piuttosto, dando valore al loro lavoro quotidiano, lo Stato socialista le aveva nobilitate. E molte Guardie Rosse non si erano sentite affatto sminuite dall’indossare abiti maschili.
Ciò che emerge da questa forma di revisionismo, che non è stata solo una teoria eterodiretta, ma ha avuto impatti effettivi sulla vita delle donne nel periodo delle riforme, è che il corpo femminile è sempre stato un terreno conteso dalle élites nei momenti di cambiamento sociale. Le due opere messe a confronto ci raccontano dell’esistenza di due modi diversi di esperire la femminilità, ma non ci consentono di capire quale fosse il più vero e il più autentico. Per questo, ancora una volta, siamo costretti ad affermare che le immagini non possono rivelare tutta la verità.
NOTE [1] Shuqin CUI, Gendered Bodies. Toward a Women’s Visual Art in Contemporary China, Honolulu: University of Hawai’I Press, 2016, p. 70. [2] Per un approfondimento sulla Rivoluzione Culturale si consiglia Guido SAMARANI, La Cina del Novecento. Dalla fine dell’Impero a oggi, Torino: Einaudi, 2004, pp. 249-285. [3] Paul J. BAILEY, Women and Gender in Twentieth-Century China, New York: Palgrave Macmillan, 2012, p. 123. [4] Wenqi YANG, Yan FEI, “The annihilation of femininity in Mao’s China. Gender inequality of sent-down youth during the Cultural Revolution”, China Information, vol. 31, n. 1, New York: Sage journals, 2017, p. 5. [5] Hung WU, Contemporary Chinese Art: A History 1970s-2000s, Londra: Thames&Hudson, 2014, pp. 181-182. [6] Sasha Su-Ling WELLAND, Experimental Beijing. Gender and Globalization in Chinese Contemporary Art, Durham; Londra: Duke University Press, 2018, p. 2. [7] Kay Ann JOHNSON, Women, The Family and Peasant Revolution in China, Chicago: University of Chicago Press, 1983, pp. 180-181. [8] Yihong JIN, “Rethinking the ‘Iron Girls’: Gender and Labour during the Chinese Cultural Revolution”, traduzione di Kimberley Ens Manning, Lianyun Chu, Gender and History, vol. 18, n. 3, New York: Wiley-Blackwell, 2006, p. 216. [9] Margaret WOO “Chinese Women Workers: The Delicate Balance between Protection and Equality”, in Engendering China: Women, Culture and the State, a cura di Christina K. Gilmartin, Gail Hershatter, Lisa Rofel, Tyren White, Cambridge: Harvard University Press, 1994, pp. 279.298 [10] Si veda Xueping ZHONG, Masculinity Besieged? Issues of Modernity and Male Subjectivity in Chinese Literature of the Late Twentieth Century, Durham; Londra: Duke University Press, 2000. [11] Zheng WANG, Finding Women in the State. A Socialist Feminist Revolution in the People’s Republic of China, 1949-1964, Oakland: University of California Press, 2016, pp. 230-237.
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